Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Italo Calvino, Lezioni Americane
Mentre il bambino costruisce il linguaggio costruisce il suo mondo. Le parole si riempiono di significati attraverso l’esperienza e viceversa, l’esperienza modella il linguaggio. Il bambino dialoga con la realtà circostante dalla quale attinge, e con la quale plasma, il suo linguaggio e il suo pensiero. Leggere ad alta voce, cantare, recitare filastrocche fin dalla pancia ha una doppia valenza: da un lato, crea legame attraverso l’udito e le vibrazioni, dall’altro attiva la co-costruzione di significati. Leggere le parole è come offrirle al bambino, presentandogliele in tutta la loro potenza.
La lettura a voce alta è importante per la salute dei bambini e per la relazione genitori figli.
Nei primi mille giorni di vita il bambino lavora incessantemente: il suo cervello è impegnato nella produzione di centinaia di migliaia di sinapsi, un’attività febbrile e raffinata che beneficia grandemente di stimoli adeguati: un tempo per l’attività, un tempo per ripetere le attività apprese, un tempo per il gioco del rispecchiamento, un tempo per le coccole, un tempo per il riposo.
In molti di questi tempi il contatto partecipe con l’adulto è un potente attivatore delle funzioni cognitive: il bambino impara con maggiore soddisfazione se l’adulto è presente e rimanda al bambino le sue “scoperte”, in un processo continuo di risignificazione.
Nel saggio “La parola incantata. Poesia per bambini: quale come, perché” di Franco Cambi e nell’articolo “Le narrazioni nella mente dei bambini” di Calabrese, gli autori pongono l’accento sui processi neuro-cognitivi che vanno a favorire lo sviluppo e a strutturare quella che Imbasciati definirebbe l’unità mente – cervello del bambino.
Da molti anni utilizzo la narrazione e leggo poesie per affrontare argomenti culturalmente “scomodi” (la paura, il dolore, la rabbia, il lutto, la patologia mentale, i traumi ed i conflitti in genere).
Ho lavorato con gruppi di neomamme e con classi di scuola primaria: il feedback dei bambini durante i progetti di lettura che ho proposto si allinea con quanto scritto da Cambi e Calabrese. La poesia, così come le storie narrate e condivise, anche quando affrontano argomenti “tabù”, modulano e favoriscono nel bambino (singolo e in gruppo) l’esperienza dell’apprendimento ma anche della strutturazione del sé e del “sé con l’altro”. Immaginare, narrare mondi alternativi e far “fiorire” ipotesi da verificare e integrare nell’esperienza personale (propria e del gruppo dei pari) arricchisce infatti non solo il piano dell’esperienza, ma anche il piano della “progettualità”: il bambino che incontra la poesia o ascolta la narrazione di una storia crea mondi immaginari da cui trae infiniti spunti attualizzanti, in uno scambio incessante e fecondo tra il proprio mondo interno in fieri e i mondi là fuori.
Recenti studi concordano nel valorizzare l’apprendimento favorito dall’adulto di riferimento come base di sviluppo non solo cognitivo ma anche emotivo del bambino (l’empatia allocentrica di cui parla Calabrese, ma anche le abilità di mind-reading sono possibili grazie all’utilizzo della narrazione in un contesto relazionale “sicuro”), e illustrano la bidirezionalità propria del neurosviluppo: il bambino “riceve” dall’esterno, codifica, integra sulla base dei suoi schemi cognitivi per poi “restituire” un “quid” che è un prodotto originale di incessanti costruzioni e decostruzioni: questo “lavoro” avviene massimamente nella fascia d’età che va dalla nascita ai sei anni: epoca feconda di possibilità nella quale il ruolo dell’adulto è essere una “base sicura” per esplorare i mondi possibili, immaginare quelli impossibili, fare ritorno e poi ripartire.